Dai cavalieri selgiuchidi alle tristi movenze di un gatto mezzo morto

L’ultima volta che ho visto un gatto era spiaccicato a terra senza
più neanche una vita. A quel punto ho pensato di essere come
quel gatto. Ho capito di essere come quel gatto. Io quel gatto l’ho
mangiato. Sapete la differenza che passa tra un gatto morto e un
gatto vivo? quello morto ha le budella che gli escono dalla
boccuccia. la differenza tra me morto e me vivo? il colorito.

Ecco, ora volevo raccontare un po di questa lunghissima assenza,
da me perpetuata nei mesi da questo simpatico blog. Sono stato
arrestato dalla polizia bulgara mentre rincorrevo una donna che mi
doveva 12 euro e un pezzo di fegato. Mi presero per il solito
italiano alle prese con il suo uccello impazzito. Fu difficile
spiegarlo alla polizia bulgara, anche perchè si ostinavano a
parlarmi in una lingua sconosciuta sebbene il mio inglese fosse
comprensibile.

Le notti bulgare erano pregne di musiche balcaniche, di balli
folklorici, di piccoli gruppi Dervish che mi roteavano incontro.
Notti senza via d’uscita con l’alcool che avrebbe potuto incendiare
un intera nazione. Una sera d’Aprile verso l’una del mattino
scongiuravo una puttana greca di non far pagare il conto della
nottata al mio amico fidato. Avevo in tasca una grossa risata ma non
la tirai subito fuori, era da sfoggiare nelle grandi occasioni.
Quella notte, quando stufo mi recai a bere un goccio, mi si accostò
una giovane donna al bancone del Roger’s; era difficile incontrare
una donna da quelle parti, eppure non mi sconvolse la sua
immagine e il suo sguardo attorniato da un immenso color celeste nei
suoi occhi. Mi fece cenno con le mani proprio mentre ripetevo in
mente l’ennesima grazia alla sgualdrina e mi chiese se fossi disposto
a fare una cosa a tre. I miei problemi erano altri e tra la polizia
alle spalle che cercava il mio nome nei ristoranti e le suore bulgare
che mi rincorrevano coi rosari in mano, le risposi che l’unica cosa
plausibile era un semplice giro per Sofia. Camminammo con il mio
bidone a quattro ruote per mezza città fin quando mi chiese di
salire verso il monte Vitosa. Da li a qualche decina di chilometri ci
sarebbe stata una splendida vista della Saggia. Una stupenda città
dalle mille luci lampeggianti; sembrava un enorme prato di bulbi
intermittenti, rimanevo incantato quando ne fissavo più di una
contemporaneamente e quasi mai riuscivo a seguire il filo del suo
discorso. Parlava un buon inglese anche se non ho mai compreso se non
riuscisse o non avesse voglia di nascondere quella stupenda inflessione
bulgara che donava al suo inglese un tocco genuino ed eccitante.
L’erba fresca del Vitosa rinfrescava la mia bocca e continuammo a
discutere per lunghe ore. Il mio pensiero si era fissato nuovamente
sulla puttana e il mio amico fidato; il cavaliere di Montparnasse. Un
uomo di oneste attitudini votato alla cultura. Il suo chiodo fisso
era Marilù, una puttana di strada che si ostinava ancora a
farlo pagare nonostante il cavaliere avesse pagato gran soldoni al suo magnaccia per averla tra le sue braccia solo e solamente. La
chiedeva in sposa oramai da quasi 6 mesi senza mai ricevere nessuna
attenzione particolare. Lei aveva un altro amore, probabilmente un
altro amore.

Mi stesi sull’erba e cominciai a guardare il cielo ingrossato
da nuvole colme d’acqua, era caldo sebbene la primavera ancora dietro
le porte. Contavo le ultime stelle rimaste in cielo prima che il
nuvolone le coprisse definitivamente.  Lilba, così si
chiamava la giovane, mi fece alcune domande che richiedevano poca
concentrazione per risponderle, visto che il continuo lampeggiare
dell’infinità di luci m’impedivano di aprire bocca, ero
affollato dai pensieri e per il resto fui ad ascoltare l’immenso
trasbordare delle sue parole. Si vedeva che era giovane e il suo
sorriso si spegneva solo quando appoggiava le labbra su di una birra
gelata, e poi le ritornava su. Le chiesi di raccontarmi il suo
girovagare e non mi rispose. Aveva molto da dire. Mi raccontò della sua vita travagliata, della
sua testa che vacillava ad ogni colpo di bastone, mi raccontò
di come perse tutti; famiglia e amici. Non capivamo se fosse giusto fidarsi o lasciarsi prendere dalle ventate di emozioni. La baciai. Mi mise la mano
nella tasca della giacca, penetrò con le unghie fino ad
arrivare dietro al costato, strinse il pugno e tolse nuovamente fuori
la mano. Strappo un pezzo di fegato e le ultime dieci euro della
giornata. Lo fece silenziosamente, conservando quel sorriso
ammaliante, continuando a baciarmi. Lo fece e scappo via.

Rimasi sconvolto per dieci minuti, mezz’ora, un giorno.

Ritornai a casa a piedi, lasciai la macchina lassù, avevo
voglia di fare un bagno nel mar nero. Avevo voglia di affogarmici.
Passarono tre giorni e scesi da casa per comprare delle sigarette e
incontrai il Cavaliere su per la strada con Marilù,
abbracciati. Mi sconvolse il viso del mio amico, imbruttito. Gli
feci:

–“chi ten compà?”

–“aahh…è strana la vita caro amico! Prim ‘a vuliv ca
n’at pocu m’ammazzava e mo c’a tegn mi vena u vommicu!”

Il Cavaliere di Montparnasse ne aveva già abbastanza.

Lei sorrise pensando quanto fosse bello l’italiano, ormai
innamorata del Cavaliere. IScrutai con un occhio il dolore del mio
caro amico e con l’altro la sua voglia di piangere. Aveva tutto e
nulla, come prima, anzi peggio, ora aveva altri due occhi da far
lacrimare. A quel punto scontento ma legato da un forte abbraccio a
Marilù, accennò ad un sorriso e se ne andò per
la sua strada accompagnato dai passi stretti della puttana. Lo
salutai e pensai a quanto era doloroso vederlo, anche se non avesse
sputato parola me ne sarei accorto del suo malessere. Gli si vedeva. Stetti un po ed ebbi la soluzione nelle mani.
Con l’aria di quello che ha appena scoperto l’inganno che si nasconde dietro vita, mi
recai in un bar per dimenticarlo il più in fretta possibile.
Lo feci in poco più di un’ora, scolandomi una bottiglia di
Stchiucha; il miglior whisky che abbia mai bevuto. Stavo davanti al
bancone pensando al Cavaliere e dallo scaffale di fronte a me vidi riflessa
in una bottiglia di martini una sagoma impossibile da confondere:
Lilba. La seguii prima attraverso il riflesso nelle altre bocce
sulla grossa mensola, poi mi girai di scatto, feci di tutto una sorsata e
uscii fuori in strada per andarmi a prendere i 12 euro e il mio pezzo
di fegato.

Appena sulla strada, lo scampanellio della porta del bar mi
tradì, facendo girare la donna che scappò verso la
strada principale. Mi misi a correre più che potevo e mentre
lo facevo mi sentii un deficiente, per 12 euro e un pezzo di fegato,
per una stupida ripicca di una bambina che pensava di fregare un turistello, per una scagnozza alle prime armi di chissà
quale magnaccia. Mi sentii un verme ma continuai a correre. Lei
urlava come un ossessa, nella lingua incomprensibile che non usò
sul Vitosa, e io la seguivo. Erano ormai cinque isolati che la vedevo
allontanarsi di poco a poco e accelerai anche se sentivo il cuore
battermi tra i denti. Davanti un bazar la mano ferma di un uomo mi
stordì con un forte pugno nel petto. Mi alzai confuso e
davanti c’erano alcuni gendarmi. Subito dietro c’era il viso stupendo di
quella giovane. Chiesi subito i miei 12 euro e il mio pezzo di fegato
e tutti si misero a ridere, lei compresa. Mi alzai da terra, mi
strofinai la giacca impolverata e tolsi di tasca un’enorme risata,
così grande che la poterono sentire fino ad Atene. Sconvolse
tutti, sconvolse anche me. Ma non fu facile convincere il poliziotto.
Era sordo. Fui portato in cella e per molto tempo non fui capace di
togliermi dalla testa l’immagine del cavaliere; un continuum di
immagini e suoni lampeggianti come le luci di Sofia, ripetuti
all’infinito. Per tre mesi rinchiuso in una cella a nord di Sofia.

E
ora sono ritornato in libertà. Sono appena uscito dal casello
dell’autostrada e d’un tratto da una siepe un gatto. Impossibile da
scansare.

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